Elena Kostioukovitch selected the short stories, chose the translators, checked the translation, managed copyrights, coordinated the internal iconographic selection, controlled the typographical structure, contributed to the creation of the cover art and participated to the promotion. Besides that, she wrote the foreword and provided the book with footnotes.

ANAMNESI
Questa è la storia di una malattia, la sua cartella medica. Il inalato è rimasto a letto per molti anni, era sordo, era muto. Adesso cerca di cominciare a vivere.
Quelli che ricordano Lo specchio, il simbolico film del famoso regista russo Andrej Tarkovskij, ne ricorderanno bene anche il prologo: un giovane assistito da un medico impara a parlare. Pronuncia le prime parole balbettando, soffrendo - sembra quasi il travaglio di un parto, in cui viene alla luce il Verbo, cioè la liberazione.
Le prospettive di guarigione sono incerte. Ma ora il ciclico disgelo sovietico propone alla società almeno di fare un tentativo, naturalmente rischiando l'esito peggiore, poiché chi non si muove non perde nulla, o meglio, perde tutto ma senza accorgersene.
I racconti che compongono questo libro sono legati essenzialmente dalle date della loro pubblicazione. Diversi infatti sono i tempi della loro creazione, l'età degli autori - dai trenta agli ottantasei anni -, il loro orientamento ideologico; ma quasi tutte queste opere sono state pubblicate negli ultimi tre anni sulle pagine delle riviste della perestrojkai sono uscite con tirature enormi, sino a 20 milioni di copie, hanno parlato in coro e in coro continuano a parlare adesso.
Questi racconti vogliono essere letti così come li leggono i russi, che a notte fonda, d'inverno, aspettano in fila e nella neve davanti a un'edicola fino al mattino, quando finalmente arriva un foglio con le parole scritte - cioè il Verbo, la liberazione.
li leggono, questi fogli, come un paziente legge un referto medico. Nella narrativa russa il racconto breve occupa un posto speciale; in un certo modo si contrappone al romanzo che assolve le funzioni di un'analisi storico-sodale quasi inesistente, o vietata. Attraverso le varie epoche, gli eroi dei romanzi russi hanno com­piuto analisi sociali, hanno posto problemi morali, religiosi e poli-tid, hanno fatto filosofia, hanno predicato. Il romanzo da Tolstoj e Dostoevskij a Solženicyn è sempre stato visto come luogo di interessi ideologici, mentre il racconto si presentava come più disinteressato: nella concezione kantiana, la contemplazione disinteressata è la base dell'atteggiamento estetico verso la vita.
Disinteressato in questo caso significa forse meno informativo, se per informativo s'intende carico di materiale storico sensazionale (le purghe staliniane, il terrore e il sangue della strage rivoluzionaria, 2 vero costo della vittoria nell'ultima guerra, gli intrighi al vertice bolscevico fin dai primi giorni della rivoluzione), oppure biografico (Lenin visto da Vasilij Grossman, Stalin visto da Anatolij Rybakov, le drammatiche esperienze personali raccontate da Solženicyn). L'insieme dei racconti che abbondano oggi nella narrativa russa è ricco invece di un altro tipo di informazioni. Descrive la storia e la biografia dell'anima, e non di un'anima grande e nobile, ma di un'anima qualsiasi, anzi, modesta, descrive spesso la miseria psicologica che corrisponde alla miseria della condizione umana.
Questa è, com'è noto, la situazione archetipica della letteratura russa classica, della quale parla persino il lessico di titoli come Memorie del sottosuolo, II sogno di un uomo ridicolo, Umiliati e offesi, Povera gente, Memorie di una casa di morti e L'idiota di Fedor Dostoevskij, Diario di un pazzo di Nikolaj Gogol' e Miseria, Una storia noiosa, La stanza n. 6, II racconto di uno sconosciuto di Anton Cechov. "Noi siamo tutti usciti dal Cappotto di Gogol'": queste parole attribuite a Dostoevskij d indicano come e quando è nata questa prosa permeata di un'estrema pietà, attenta alla tragedia di una piccola vita che non è meno sconvolgente della tragedia di un grande uomo.
H patetico eroe del Cappotto di Gogol', Akakij AkaHevic, sogna per decenni l'acquisto di un nuovo cappotto caldo, sacrifica tutti i desideri della vita a questo sogno quasi irraggiungibile, si fa fare il cappotto e ne viene subito derubato, il primo giorno, perdendo insieme il senno e la forza di vivere. Forse è il racconto più straziante di tutta la tradizione nazionale. Ma la situazione archetipica russa ha una caratteristica ancora più profonda: questa esistenza miserabile spesso non viene vista soltanto dall'esterno, ma anche dall'interno; doè è dotata di un'acuta cosdenza di sé, tende all'autodescrizione. H protagonista di Povera gente di Dostoevskij, Makar Devuskin, legge appunto II cappotto di Gogol', riconoscendovi, pensoso dapprima e poi traumatizzato, se stesso.
Anche nella raccolta qui presentata il vero contenuto sta nell'esplidtazione dell'intima natura di quell'essere umano che, os­servato freddamente, in quanto fenomeno storico porta il nome ormai usuale di homo sovieticus.
Non è più il poveracdo gogoliano o dostoevskiano che rimane pur sempre consapevole della sua disgrazia, che si lamenta, d lacera il cuore. La tragicità del nuovo Akakij AkaHevic, nel settantatreesimo anno del potere sovietico, sta nel fatto che lui non si dirà mai umiliato e offeso. Tutta la retorica politica e culturale, tutta l'ideologia statale cercano di convincerlo che la sua vita e la vita dei suoi conterranei è organizzata nel migliore dei modi, secondo princìpi di giustizia e di uguaglianza. Se con l'andare degli anni riesce un po' alla volta a capire la falsità di molti cliché propagandistici, meglio per lui, ma l'aspirazione all'uguaglianza persiste nella maggioranza dei casi e rimane dentro di lui come base profonda della mentalità sovietizzata. È questo uno dd motivi più forti e più pericolosi dell'attuale cresdta nella società sovietica di tendenze populiste ed egualitarie, collegate con la linea politica di Boris Eltsin. Ed è un punto di orgoglio: questa cosa è davvero propria solo ai russi, volere l'uguaglianza a tutti i costi, anche se sarà (ed è) l'uguaglianza della miseria, della privazione dd diritti. L'homo sovieticus è molto spesso quasi fiero della propria condizione (è cosi resistente! dovrebbero gli europa, o gli americani, fare per una settimana la vita che lui fa per decenni!), e in un certo modo ritiene la propria umiliazione segno di superiorità.
Spesso questa millanteria paradossale e masochista diventa oggetto di interpretazione satirica e comica nel cinema, nella pittura, e soprattutto nell'arte sincretica dell'avanguardia concettualista. In un certo modo fa parte dello stesso filone anche il narratore Vjaceslav P'ecuch: nel suo racconto che apre questa antologia, il conflitto caricaturale tra due minuscoli villaggi della campagna russa, visto come una guerra quasi mondiale, assume un carattere nettamente eroicomico.
La stessa chiave, ma questa volta priva di qualunque sfumatura comica, d apre il significato del racconto Auguri! di Vladimir Krupin: è il monologo di un classico "offeso" dostoevskiano, un ventenne semi-handicappato reduce dall'Afganistan che nella notte di Capodanno, sempre più ubriaco, tira avanti un suo interminabile brindisi pieno di battute incomprensibili e strane, pieno di aggressività, senza gusto, senza fine. li, nelle terre dove è andato a combattere col suo kalashnikov, credendo di prestare a dei selvaggi asiatici "l'aiuto internazionale'', ha finito invece per acquisire lui gli attributi del selvaggio: si è abituato a drogarsi alla afgana, a ubriacarsi alla russa, a sparare e uccidere come una bestia feroce, e si è disabituato a parlare la normale lingua degli uomini - ammesso, naturalmente, che lo sapesse fare prima.
A questo punto siamo arrivati a una caratteristica importante, che accomuna molti dei racconti scelti per questa edizione: si tratta della particolare specificità del linguaggio narrativo, che rende estremamente difficile il lavoro dei traduttori. In vari racconti, e ad esempio in Auguri!, intento dell'autore è riprodurre il modo di esprimersi vergognosamente povero di una mente altrettanto vergognosamente povera e nello stesso tempo inconsapevole della propria miseria. Parole fiacche, deboli e scialbe, frasi prese in prestito e costruite a caso, nel tentativo di espri­mere in qualche modo il proprio esistere, il proprio strazio.
Spesso la voce che ci raggiunge dalle pagine della nuova nar­rativa russa è la voce di chi, per motivi sociali oppure biologici, non possiede il dono - reale o simbolico - del Verbo. Sarà la voce di un ritardato mentale, come quella del protagonista di Passi di Andrej Dmitriev. Oppure sarà il rituale resoconto quoti­diano dell'eroina di Pecorella di Aleksandr Bela], resoconto di un'esistenza ottusa dove manca la parola come manca il significato, cosicché un essere umano, padrone di non più di venti parole, diventa quasi un animale, una pecora appunto. In Auguri! park un balbuziente alcolizzato. In Cara Tonja di Valeri) Murzakov parla una persona colpita da amnesia: non riesce neppure a ricordare il nome della propria moglie.
La stessa quieta tragicità della vita inconsapevole, ostile alla verbalizzazione e a qualunque concetto di autodescrizione, esplo­de nel racconto di Evgenij Popov Come fu mangiato il gallo, che sembra appartenere alla letteratura dell'assurdo, ma nel quale, nello stesso tempo, è presente l'agghiacciante verosimiglianza, da semplice cronaca, delle cose descritte.
È ovvio il nesso simbolico ma anche reale tra l'infantilismo psichico delle persone e il paternalismo oppressivo del sistema. Viktor Erofeev, anch'egli incline allo humour dell'assurdo, costruisce nei suoi racconti un mondo di fantasia con molti attributi di una realtà emblematicamente sovietica, usando la simbologia più adatta, cioè la simbologia quotidiana dell'immediato dopoguerra:
nel suo Galosce tutto, persino l'indumento che da lo spunto alla narrazione e il titolo al racconto, e che è ormai assolutamente fuori moda - le stupide galosce di gomma nera, o le lunghe mu­tande della maestra di scuola, o il preside dall'aspetto sadico, che terrorizza sia gli scolari che gli insegnanti -, ci spiega la correlazione tra l'incubo delle frustrazioni infantili e la struttura del mondo totalitario dominato dall'autorità del Grande Padre.
Si potrebbe dire, per amor di analogia, che dal Cappotto di Gogol' è uscito L'affare della pelliccia di Nikolaj Smelev, se non ed fosse una sconvolgente differenza tra l'eroe gogoliano, la cui vita è riempita da una motivazione foltissima, concreta, che a ogni cosa da valore e senso, e il piccolo burocrate sovietico descritto da Smelev, nella cui vita spicca l'assoluta mancanza di motivazioni. Anche l'evento tragico, l'affare descritto nel racconto -esattamente come nel prototesto gogoliano, l'immediata sparizione della pelliccia appena comprata - e che minaccia stranamente di cambiare tutta la vita del protagonista, si rivela tanto vago, lontano, sfocato, che potrebbe sembrare inesistente e mai esistito, cosi come mai esistito sembra l'eroe stesso. Nonostante che solamente raccontando quello che era successo anni e anni prima il protagonista potrebbe salvarsi, egli tuttavia non è in grado di raccontare, e dunque è condannato dal suo stesso silenzio.
Alla capitolazione del pensiero e della volontà la raccolta affianca la variante opposta: alla condizione di un uomo che non sa capire quello che gli succede, contrappone la condizione di chi è capace di capire e riflettere.
Se percorriamo la catena tematica che dal Cappotto di Gogol' porta al racconto di Bulat Okudžava, nel quale il giovane eroe autobiografico in molti mesi di fatiche cerca di farsi fare - anzi, di erigere, come un monumento - il sognato cappotto di cuoio, vediamo subito che qui lo stesso tema prende una piega del tutto diversa: non più l'afasia, bensì la volontà eccessiva di esprimersi influisce fatalmente su quello che avviene dopo.
Capire non sempre vuoi dire vincere. Anzi, spesso l'unico risultato che ottiene chi sa capire, è soltanto il dolore. Spesso ed accorgiamo che questi eroi non cercano di respingere l'amarezza e la disperazione, e vivono la triste esperienza della cognizione del mondo e di se stessi semplicemente perché non possono fare altrimenti, perché si ritengono obbligati - loro e, naturalmente, i narratori - a capire e a ricordare.
A ricordare e a non perdonare. Il motivo della colpa e della espiazione - che possono esistere solamente là dove al posto del silenzioso disgregarsi della ragione c'è l'intensissimo travaglio della coscienza analitica - pervade la prosa di Julij Daniel' e di Jurij Trifonov, due narratori che hanno scritto i loro racconti molti anni fa e che, ambedue, non hanno fatto in tempo a vedere le rispettive opere pubblicate in patria. Per ovvie ragioni politiche queste pubblicazioni sono diventate possibili soltanto nell'epoca gorbacioviana.
Non perdonare. Certe cose appartengono a una realtà nella quale niente può essere perdonato, anche se a volte la vita co­struisce ingegnosi tranelli. L'autobiografico protagonista di Lo slittino di Georgij Žženov, un giovane astro del cinema, che l'ar­resto strappa a una vita appena iniziata, piena di promesse, non muore di fame in uno degli orrendi lager staliniani unicamente grazie al sadico capriccio di un ufficiale guardiano. L'autore racconta la storia vera della propria vita. È sopravvissuto a tutto, è tornato a Mosca dopo diciassette anni di galera siberiana, ha ri­cominciato a lavorare nel cinema come uno dei divi più amati dal pubblico. Quali parole deve scegliere per raccontare quello che non scorderà mai? Quali giudizi deve dare?
Non è giusto dire che solo il sentimento della sconfitta e del dolore anima tutto quello che viene pensato e scritto in Russia oggi. C'è posto anche per la vittoria.
Può essere la vittoria di uno di quelli che non ragionano, gli "arasid" di cui dicevamo prima, semplici nel senso biblico e medioevale, che pur sono dotati - magari grazie alla totale mancanza di fantasia - di una forza interna talmente straordinaria da renderli, come i personaggi del mito, fisicamente invulnerabili. Ne è una prova sorprendente Adgur, il barista del racconto di Fazil' Iskander.
Può essere la vittoria di quelli che semplicemente non hanno paura e sono dotati di una certa volontà costruttiva. Vincitore in un certo senso, anche se poi gli spetta la dolorosa caduta dall'Olimpo, è il protagonista del racconto di Tat'jana Tolstaja, Filin, creatore di una pararealtà affascinante, che si contrappone al grigiore della quotidianità sovietica. Vincitori vogliono diventare i personaggi di Scambi di Vladimir Makanin, i quali come formiche ostinatamente costruiscono il loro minuscolo mondo di futura felicità.
Può essere la vittoria di coloro che si dedicano interamente all'azione, non consumando energie in ragionamenti, poiché d'e­nergia non ce n'è molta, e il mondo è tutto ostile. L'antiutopica visione della Russia post-gorbacioviana devastata da un'immagi­naria guerra civile negli ultimi anni di questo secolo, e divenuta terra di nessuno, paesaggio mesozoico, arena della lotta per il fuoco, d si presenta nel racconto che chiude il volume. I personaggi di Ljudmila Petrusevskaja, sopravvissuti w11Vnn"""ifna tappa della selezione naturale, salvatisi dal freddo, salvatisi dalla fame, salvatisi dalle misteriose truppe dei devastatori che continuano a percorrere i villaggi morti, dispersi in boschi preistorici, alla ricerca di qualche preda - questi uomini e donne hanno pochi pensieri, quasi tutti di natura pratica, niente raffinatezze, niente rimorsi. Ma, loro che si credono quasi i primi uomini di una nuova civilizzazione futura, oggettivamente sono vincitori, in quanto hanno saputo dominare se non altro il proprio deside­rio di arrendersi.
Può essere - e questa sarà la più vera - la vittoria di una mente consapevole, che immagina tutti gli ostacoli che avrà da superare e tutte le conseguenze della sconfitta. Questa vittoria è quasi sempre indivisibile dal dolore. A questo tipo appartiene il protagonista di Lo slittino, a questo tipo appartiene La dottoressa di Andrej Bitov. E sicuramente una vittoria degna e altissima è l'operazione chirurgica sulla propria coscienza, nei suoi risvolti più intimi, nel vivo, senza anestesia, di cui è stata capace Iidija Ginzburg. Filologa sottile, l'autrice crea un tipo di prosa sintetica, che fonde elementi di narrazione ed elementi di saggistica, un genere nuovo a metà strada tra romanzo e maximes. In Russia, oggi, molti trovano più avvincenti di qualsiasi giallo questi intrecci dell'intelletto investigatore.
Questo libro (il cui percorso abbiamo cercato di indicare) è concepito come il quadro del concettualista Grisa Bruskin ripro­dotto in sovraccoperta, è composto cioè di varianti, dettagli, schegge del mito dell'homo sovieticus. E come il quadro, il libro non deve creare un'immagine univoca. Studieremo i sintomi, e chi vivrà vedrà. Che cosa prenderà, il sopravvento - il circolo vi­zioso del dolore e dell'incomprensione, oppure la rottura col passato per mezzo di una presa di coscienza spietata e decisa? Una sola cosa è chiara. Guarigioni miracolose non ce ne possono essere, e la coscienza è uno strumento chirurgico che fa molto male.
Elena Kostjukovic
aprile 1990