Letteratura russa: l'intellighenzia al potere
Nel periodo storico attuale, quando i grandi sistemi sociopolitici di tutto il mondo subiscono processi di una pro­fonda ristrutturazione, si avvertono in­teresse e curiosita verso analoghi momenti del passato storico comune. Le scelte degli editori italiani, che selezionano nell'enorme varieta e quantita dei libri stampati in Russia, quelli che do­vrebbero andare meglio per il pubblico occidentale, rispecchiano nettamente questa tendenza. Qualche anno fa inte­ressava soprattutto, nei testi che si traducevano dal russo, l'effetto choc, do­vuto sia alle scoperte inaudite (che rivelavano, per esempio, le atrocita delle rivoluzioni e dei sommovimenti sociali oppure denunciavano la triste e orwelliana realta del totalitarismo vincente), sia alla novita dei fatti letterari che fino ad allora erano rimasti ignoti, nascosti, soffocati dalla censura. Ma sembra che nel corso dell'ultimo decennio il mercato intellettuale si sia completamente saziato di queste novita e scoperte. Diciamolo pure, la rivoluzione russa non fa piu effetto, e nuovi scrittori geniali non si presentano tutti i giorni. Anzi, quelli che per qualche settimana ebbero la fortuna di andare molto di moda (qui si ricordano Anatolij Rybakov, autore del romanzo Figli dell'Arbate di due seguiti, che raccontavano lo stali­nismo a puntate, come se fosse Beautiful; oppure Leonid Borodin, profeta della neocristianizzazione della societa postsovietica; oppure Viktor Erofeev, autore del romanzo La bella di Mosca, il cui unico pregio consisteva nel lin­guaggio disinibito e nell'intrigo scandalistico se non pornografico, costruito attorno alla figura di una prostituta moscovita), altrettanto rapidamente sono stati scordati e buttati fuori dai cataloghi.
Negli anni precedenti si puntava soprattutto sugli effetti stravolgenti, sulla denuncia sociale, sul fantastico (mi ri­ferisco, per esempio, alla nostra rassegna precedente apparsa sul n. 4/1993 de "L'informazione bibliografica"). Ora, con una visione piu ragionata e tran­quilla, si effettuano scelte che prediligono il discorso non piu rivoluziona­rio, ma dedicato ai problemi della evoluzione. Si tiene sempre presente, come un punto di riferimento, la fase specifica dello sviluppo della Russia attuale, visto che il paese si sta trasformando gradualmente in uno Stato che punta sulla societa civile.
Diventano piu che significative per un confronto storico e artistico, altre tappe del passato, quando la Russia gia sperimento delle simili trasformazioni. Anzitutto appaiono basilari per tale confronto due periodi: il cosiddetto secolo d'argento, a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, quando la Russia perse le sue chances di diventare un paese libero con un'economia svilup­pata, una democrazia parlamentare e una mentalita europea; e gli anni Venti, subito dopo la rivoluzione bolscevi­ca, ma ancora prima dell'instaurazione del culto assoluto di Stalin.
Ambedue questi periodi, cosi come quello attuale, hanno una caratteristica comune che li rende molto speciali nel contesto di tutto lo sviluppo della storia della Russia. Si tratta del ruolo pri­mario, del ruolo guida per i destini del paese, della classe (o meglio, del gruppo sociale) che in tutte le lingue del mondo si chiama con la parola russa "intellighenzia".
Non dobbiamo spendere molte pa­role per spiegare il significato di que­sto termine, che nel contesto russo possiede innanzitutto connotazioni eti­che e moralistiche. Esso non sta a significare - che so - i liberi professioni­sti, o i laureati o, peggio ancora, gli aristocratici, quelli che il lettore occi­dentale conosce dai romanzi di Lev Tolstoj e sommariamente identifica con i "veri intellettuali russi". L'intellighent alcune volte e una persona povera e di bassa estrazione sociale; puo non aver studiato abbastanza, e non essere in grado di reggere difficili sfide intellettuali; ma deve comunque avere una brama insaziabile di sapere, di andare avanti, di dovere migliorare se stesso e la societa in cui vive, di essere moral­mente obbligato (ma non per una mo­tivazione religiosa) a dare una mano a chi sta peggio di lui, e, soprattutto, di dovere riflettere in continuazione sulle questioni che sono impastate di dolo­re, di non avere pena di se, di non accontentarsi mai.
L'intellighenzia russa e arrivata al vertice del potere, per la prima volta nella storia del paese, quando e nato il primo Parlamento. Per capire quel pe­riodo, meglio di qualsiasi monografia storica ce lo racconta un bel romanzo, La chiave di Mark Aldanov, proposto qualche mese fa da Voland, una nuova casa editrice romana che si configura appunto come "editrice dei testi del­l'intellighenzia". Questo romanzo (pri­ma parte della trilogia sulla rivoluzione - La chiave, La fuga, La caverna) non puo non essere segnalato sia per un'ot­tima scelta fatta, sia per il buon lavoro della traduttrice e curatrice, Rosa Mau­ro. L'autore (il cui vero nome e Mark Landau), ebreo di Kiev, grazie agli stu­di compiuti, ottenne il permesso di uscire dal ghetto e di entrare nella cer­chia colta della societa pietroburghese, emigrato dopo la rivoluzione, scrisse questo testo a Parigi nel 1924. Indiriz­zato quindi al lettore occidentale, il romanzo risulta molto ben leggibile e chiaro, per il fatto che molti fenomeni vengono spiegati e non semplicemente abbozzati, come si suoi fare normal­mente nella letteratura russa, la quale adora l'accenno nebuloso, l'allusione, i giochi d'ironia seminascosti, insomma, tutti i procedimenti che per essere de­cifrati richiedono una perfetta cono­scenza del contesto.
Siamo nei mesi immediatamente precedenti la rivoluzione, quando fini­sce la Grande Guerra contro i tedeschi, e la citta di Pietroburgo rinunciando al nome "teutonico" viene ribattezzata Pietrogrado, e vive il periodo tragico, glorioso e intenso dell'era parlamente, mentre il Parlamento democratico va a ruota libera verso la propria rovina, spingendo nell'abisso tutto il paese. In questo clima irripetibile si svolge l'azione del romanzo, fondata su un interessan­te intrigo poliziesco, su una serie di nitidi ritratti psicologici e su un'acuta analisi storico-sociologica dell'atmosfera del periodo prerivoluzionario.
Questo e l'approccio tipico proprio degli autori dell'emigrazione russa; in questo modo hanno lavorato anche Chodasevic, Berberova, Nabokov; sa­pendo di non poter contare sulla com­prensione immediata dei lettori, si ri­volgevano al metodo tolstoviano del commento incorporato nel racconto.
In compagnia di Tolstoj e Nabokov
La tradizione tolstoviana, come si sa, e essenziale per tutta la letteratura russa. Modelli tolstoviani vengono mil­le volte riutilizzati sia nei grandi ro­manzi russi del Ventesimo secolo, sia nella letteratura minore (tanto per ri­portare un esempio, nel racconto poco riuscito di Aleksandr Lavrin La morte di Egorll'fc, tradotto dalla Biblioteca del Vascello, dove sembra che in base al calcolo dell'autore, tutto il plaisir du texte dovrebbe derivare dal fascino del prototipo illustre, il geniale racconto tolstoviano La morte di Ivan Il'it).
E Lev Tolstoj stesso, va visto come una figura di primaria importanza per la formazione del mito dell'intellighen­zia in Russia. Il conte Tolstoj ne e stato sempre il simbolo, respingendo il fascino della provenienza alto-aristocra­tica, travestendosi da semplice cittadi­no, piu tardi da semplice contadino, cercando di "semplificare" la propria vita e le proprie abitudini, eliminando dalla quotidianita tutto cio che non era lavoro intenso della mente, della co­scienza autocritica.
La via della "semplificazione" come ascesa spirituale faceva parte della vec­chia e nuova filosofia russa; basta ri­leggere le Vite dei santi composte nei secoli XI-XV per chiarire molti aspetti del fascino spirituale dei santoni di Dostoevskij, del suo vate Zosima, dei "giusti e santi" di Leskov (da Tranchida e uscito recentemente Golovan l'im­mortale, con una convincente Prefa­zione di Claudia Piovene Cevese, dove la figura del protagonista con la sua "saggezza viscerale" viene appunto analizzata all'interno di tutto il conte­sto tradizionale, storico e psicologico). Ma nonostante tutti i travestimenti e la "semplificazione", nell'immaginario collettivo dei colti contemporanei russi Tolstoj rappresenta il polo opposto ri­spetto al selvaggio e impulsivo "saggio muzik" Rasputin, padre spirituale della zarina e dello zar.
La narrativa di Tolstoj, la sua pub­blicistica, tutta la sua vita, la sua stessa persona fisica diventarono per la so­cieta russa un simbolo estremamente ricco e poliedrico: della grande cultura ma anche dell'intuito felice, della pas­sione ma anche del ragionamento, del­la tradizione ma anche dell'innovazio­ne. Simbolo visivo: infatti, nel romanzo di Aldanov, nelle descrizioni degli in­terni delle case in cui vive l'intellighen­zia pietrogradese, sulle pareti negli studi arredati con pesanti mobili costosi, e presente - come un emblema - il ritrat­to di Tolstoj che cammina scalzo per un sentiero di campagna. Queste foto, che sostituirono nei salotti e negli studi le icone sacre, ci fanno ricordare un altro simbolo amato dagli intellighenti di un'epoca diversa: Hemingway pen­sieroso e barbuto, con maglione dal collo alto, che occhieggiava, emblema dell'Occidente libertario, da dietro i vetri delle librerie nei monolocali dell'epoca krusceviana.
Tornando al romanzo La chiave, tra i tanti aspetti dell'importante analisi storico-politica, ce n'e uno che sembra particolarmente significativo perche aiu­ta a capire sia la Russia di quei tempi, sia quella di cent'anni prima (la Russia dell'epoca della rivolta dei decabristi), ma anche l'Unione Sovietica, il paese che cesso di esistere solo qualche anno fa. Nel romanzo di Aldanov, a difesa del liberalismo parlamentare, degli in­teressi dei poveri ed emarginati, "umi­liati e offesi", si trovano soprattutto i "purosangue, come il principe Gorenskij, della stirpe di Rjurik" (cosi riflette nel romanzo un giornalista, quasi por­tavoce dell'autore). Qui si puo osserva­re per l'appunto come l'aristocrazia si trasforma in intellighenzia.
Fanno pensare, questi personaggi inventati, ai prototipi reali a noi ben familiari grazie alla vastissima lettera­tura dei ricordi. Fanno pensare alla personalita eroica di Vladimir Dmitrie-vic Nabokov, padre del notissimo au­tore di Lolita, alla cui memoria sono dedicati sia il libro dei ricordi del figlio Altre sponde, sia il romanzo // dono, tradotto e curato da Serena Vitale per l'Adelphi. Discendente da una delle fa­miglie piu altolocate russe, V.D. Nabo­kov (padre) si realizzo soprattutto nel­l'attivita parlamentare, contribui molto all'instaurazione del sistema democra­tico in Russia e mori vittima di un at­tentato terroristico, gia emigrato a Ber­lino, dopo la fine della sua carriera politica, e dopo la fine della Russia stessa. La vendetta mortale della banda dei monarchico-antisemiti e stata desti­nata proprio a lui, figlio della nobilta antica russa, che preferi il modus vi-vendi e pensandi dell'intellighenzia e quindi venne visto come "ancora piu pericoloso" di qualsiasi rivoluzionario ebreo.
Probabilmente per Aldanov quest'uomo importava molto come punto di riferimento; e viceversa, in un certo senso, il modello di romanzo inventato da Aldanov, fondato sul continuo gio­co con il lettore, poteva avere influito sull'elaborazione dello stile del giova­ne Nabokov. La chiave, giallo polizie­sco che volutamente rimane irrisolto, fa intravedere la risoluzione solo al lettore, visto che solo al lettore e rive­lato quello che non sa nessuno dei protagonisti: che il probabile assassi­no, l'ingegnere chimico Brown, in un certo momento getta nel fiume una chiave.
La stessa cosa si ripetera nel Dono di Nabokov. L'attento lettore ricorda in che modo e quando sono spariti dalla circolazione tutte le chiavi dell'appar­tamento di Zina, di quella casa in cui gli eroi credono di poter presto realiz­zare il loro sogno d'amore. Intanto, loro stessi camminano beati, non so­spettando di nulla; come conclusione di un libro, meraviglioso, qui il grado di coinvolgimento del lettore raggiun­ge il massimo.
Il principio che ha ispirato Nabokov nei suoi romanzi, e stato sempre quello di coinvolgere il lettore collaborativo e creativo nei giochi da lui inventati.
Nabokov stesso espone il suo meto­do in uno dei testi programmatici, tra­dotti recentemente da Giulia Arborio Mella sempre per Adelphi (Nabokov in Italia viene pubblicato quasi esclusiva­mente da questa casa editrice). L'Intro­duzione a Lolita sembra un manifesto letterario mirabilmente succinto e niti­do; qui viene confermato cio che av­verte d'istinto qualsiasi lettore nabokoviano: cioe, che per questo scrittore non esistono personaggi, ma concetti, non esistono luoghi reali, ma topoi spes­so mutuati dalle altre opere letterarie, spesso nati nella fantasia linguistica del­l'autore. E, soprattutto, per Nabokov non esiste alcuna realta della vita og-gettiva al di fuori dei suoi complicatissimi giochi di stile. "Mi ci erano voluti circa quarantenni per inventare la Rus-
sia e l'Europa occidentale, e ora dove­vo affrontare il compito di inventare l'America" - dichiara in quella Introdu­zione Nabokov.
In questo modo tutto il globo terre­stre rinasce nella mente geniale: pen­sato, studiato, rinnovato. Ma anche la vera geografia puo essere "reinventata" grazie all'instancabile lavoro dello spi­rito creativo. Veniamo a conoscere dal libro di un noto scienziato, storico ca­nadese, Michael Ignatieff, tutta la saga familiare, al centro della quale si trova un'altra famiglia ricca ed aristocratica, attiva e creativa, che assomiglia a quel­la nabokoviana. Il nonno di Ignatieff, ministro degli Esteri al tempo di Ales­sandro II, modifico la geografia mon­diale, portando la pace nei Balcani e contribuendo enormemente al raffor­zamento dell'importanza internaziona­le della Russia. Suo padre fu una delle colonne del nascente Parlamento de­mocratico. Molti particolari dei ritratti di famiglia tracciati da Ignatieff ci sem­brano gia noti grazie ai libri di Nabo­kov, Tolstoj e molti altri: sono affasci­nanti questi uomini, tutta la loro vita e piena solo di lavoro e di riflessione, di creativita e di onesta.
Tolstoj e dintorni
Lev Tolstoj sembra riemergere in quest'ultimo periodo con le sue opere minori, nelle quali profetizza" insegna (Felicita familiare, Contro la caccia, II primo gradino). Queste pubblicazioni, dove il Grande Vecchio propaga con estrema convinzione le sue idee gan-dhiane, talvolta possono far sorridere il lettore; ma sono esempi di ricerca in­stancabile di autoperfezionamento.
Quante persone si rivolsero a Tolstoj per indicazioni e consigli! Un rivolu­zionario, Nikolaj Pocuev, giustiziato negli anni Trenta nei sotterranei della Lubjanka, conservo per tutta la vita una lettera di Lev Tolstoj (e nei nostri giorni un archivista, Vitalij Sentalinskij, autore di una ricerca interessantissima che ha per titolo/ manoscritti non bru­ciano, recentemente tradotta da Gar­zanti, la trovo negli archivi del Kgb), che lo metteva in guardia dalla rivolu­zione, e gli indicava la via piu naturale per lo sviluppo della storia umana.
Insegnanti e medici dalle cittadine sperdute del Volga e degli Urali chiede­vano qual era per loro la giusta via da seguire, e Tolstoj rispondeva a tutti quanti, sia privatamente, sia tramite stam­pa. Numerose "lettere aperte" da lui scritte (A Elena Telesova, ad esempio) individuavano questa "giusta via" nel­l'autocritica e nell'autoperfezionamen-to, nelle buone opere minori ("[...] In tutte le dottrine morali viene indicata una scala, che ... conduce dalla terra in ciclo, e la salita non puo compiersi che cominciando dal primo gradino I...]").
Sembra che questi discorsi di Tolstoj e dei suoi seguaci siano tornati ultima­mente di moda; come se il contenuto di questi ragionamenti abbia valore, indipendentemente dalla figura di Tolstoj come maggiore scrittore russo, di cui anche le opere minori andrebbe­ro curate con grande attenzione, in quanto parti del suo patrimonio lette­rario. Infatti, alcuni editori italiani che ristampano oggi questi testi si rifanno a edizioni italiane precedenti (1929, 1976, 1978) o a quelle francesi.
Nel frattempo e uscito pero un altro libro tolstoviano che a prima vista sem­bra distaccarsi da quelle scelte. La Vo-land ha pubblicato un volumetto dal titolo strano Lev Tolstoj, Angelo Maria Kipellino: per Anna Karenina. I nomi dei due letterati vengono riportati sem­pre in questa formula anche nel titolo della Prefazione, "Tolstoj, Ripellino e Anna Karenina: due variazioni sul tema".
Ci pare particolarmente infelice que­sta idea, in quanto Tolstoj comunque fu e rimane autore dell'opera letteraria in questione, mentre Ripellino, oltre a essere un eccellente studioso che si occupo tutta la vita di cose russe, non ebbe mai niente a che fare con la problematica tolstoviana, come riconosce la stessa curatrice Rita Giuliani, nella sua Prefazione. Di Tolstoj sono stati presi per questo libro i primi abbozzi per il romanzo, di dubbio interesse per il vasto pubblico. Infatti, per l'edizione e stata abbondantemente sfruttata la raccolta dei testi pubblicata in Russia, che fa parte della ben nota collana "II patrimonio letterario"; questa collana conta ormai piu di quattrocento volumi, che contengono materiali preparatori e minute di varie opere famose, abbon­dano di note e di commenti che sono destinati quasi esclusivamente agli spe­cialisti. Per il vasto pubblico, semmai, potrebbe importare di piu la pubblica­zione della prima versione di Guerra e pace, se non altro perche e un testo integro e non una somma di frammenti.
Ma a parte il testo di Tolstoj, e il tema ripelliniano a suscitare maggiori perplessita. Il testo pubblicato in que­sto volume assomiglia, tutt'al piu, ad appunti per una lezione universitaria. Sembra pertanto gratuita la domanda della curatrice: "perche mai Ripellino non diede alle stampe questo saggio", visto che di un saggio non si tratta e non contiene alcuna riflessione origi­nale a proposito del famoso romanzo.
Un'edizione come questa appartie­ne alla categoria di volumi d'aspetto serio, ma in fondo privi di qualsiasi coerenza e valore sia scientifico sia semplicemente letterario. Per quanto riguarda la pubblicazione degli appun­ti di Ripellino, cio potrebbe essere vi­sto come un gesto di omaggio a colui che ha insegnato le nozioni basilari a molte generazioni di russisti e di slavi­sti italiani. Ma neanche quel gesto ha molto senso, perche esiste una recen­tissima pubblicazione degli stessi ap­punti nella rivista specializzata "Russica Romana" (1994).
Desta infine perplessita l'aggiunta in fondo al volume di alcune pagine scritte con stile pomposo e zuccheroso da Daniele Morante, che onestamente non conosco.
Un altro Tolstoj, Aleksej Nikolaevic", "il conte sovietico", non e mai stato molto presente nei cataloghi degli edi­tori italiani con le sue opere esemplari, esaltate dalla critica ufficiale del regi­me staliniano: ne la trilogia Via Crucis ne il ciclo incompiuto Pietro il Grande, nonostante sia maestro dell'intrigo e dello stile virtuoso, ebbero una grande fortuna in Occidente; e al contrario, le sue opere misconosciute in patria, come // conte di Cagliostro (Sellerie, 1992) o Avventure di Nevzorov (Sellerie, 1994) sembrano avere trovato il loro posto all'interno del panorama letterario ita­liano.
Molto probabilmente, il qualunqui­smo morale di questo "letterato di cor­te" gli creo una cattiva reputazione non solo in Russia, ma anche al di fuori del paese; l'unico caso in cui il suo cini­smo diventa interessante e, si puo dire, quasi divertente, e proprio il testo del tipo di Nevzorov che appartiene al ge­nere del romanzo picaresco con una forte vena umoristica.
Nell'opera viene raccontata la stes­sa epoca e vengono vissute le stesse situazioni (rivoluzione, guerra civile, banditismo, fuga ed emigrazione, o i grossi cambiamenti storici che scon­volgono la vita dell'uomo) presentate nell'emblematica trilogia dello stesso autore di Via crucis. Nel Nevzorov, pero, questa realta viene raccontata sempre con qualche sogghigno, con grande iro­nia, senza alcun segno di compassione o di pieta, senza alcun fondamento filosofico, etico o morale tipico della narrativa russa classica (da Guerra e Pace a Zivago, da Lo Sterro di Platonov ai libri di Vasilij Grossman).
Occorre dire che la scelta dello stile pU'air.sco per il romanzo di Aleksej Tolstoj respecchiava pienamente la moda degli anni Venti; come giustamente sottolinea Renzo Oliva nella sua Prefazione al volumeto, negli anni 1923-195 il dinamismo dell’instrigo veniva considerato indispensabile. Questo era chiamato "architettura soggettuale" ; ed andava di moda criticare l'assenza di tale "architettura" nel romanzo russo dell'Ottocento, imputandola alla natu­ra disordinata dell'animo slavo.
Per la costruzione del testo lettera­rio spesso si proponevano esempi oc­cidentali. Il romanzo picaresco, genere europeo per definizione, in realta e stato esportato in Russia ancora nel Settecento e nel primo Ottocento (Nareznyj e i suoi seguaci), ma da quei tempi in poi vivacchiava appena, rea­lizzandosi in forme piuttosto marginali. Intanto nella narrativa russa ebbe il sopravvento il filone socio-psicologi­co, la letteratura assunse decisamente le funzioni della filosofia, mentre il ro­manzo d'intrigo si e quasi rinsecchito come un ramo infruttuoso.
Ma dopo la rivoluzione bolscevica, quando ebbero luogo inauditi capovol­gimenti delle gerarchie sociali, predi­sponendo la mentalita della gente ad accettare qualsiasi novita, l'atmosfera storica stessa pareva invitare al ritorno al romanzo d'avventura. Cosi nacquero alcuni famosi testi della nuova lettera­tura sovietica, quali i due romanzi di Il'ja Il'f e Evgenij Petrov, Dodici sedie e // vitello d'oro, il cui soggetto e costrui­to attorno a un certo adorabile furfan­te, Ostap Bender.
Nevzorov del romanzo di Aleksej Tolstoj e un sosia di Bender, pero le sue avventure si svolgono sullo sfondo di eventi di irripetibile tragicita. Sem­bra addirittura che l'autore trovi uno strano gusto nel deridere e parodiare l'immenso dolore umano, che quando viene raccontato in maniera non bef­farda (da Pasternak in Dottar Zivago, da Bulgakov in La Fuga, da Bunin nei racconti del periodo dell'emigrazione, da Berberova nella sua prosa: vedi Le feste di Billancourt uscito recentemen­te presso l'Adelphi; o da Ignatieff nel suo bel libro preso in considerazione poco sopra; da Zinaida Gippius nei Diari pietroburghesi scritti nell'epoca rivoluzionaria, ma anche, paradossal­mente, dallo stesso Aleksej Tolstoj nella trilogia Via crucis) fa rabbrividire il lettore. Questo distacco cinico dalla sofferenza altrui fa parte di un compor­tamento che in nessun modo puo esse­re definito intellighentnyj. Il truffatore Nevzorov si spaccia per conte; l'auto­re, che era effettivamente conte, si spac­cia invece per un sano goliardo prole­tario; si ha come l'impressione di un'im­monda falsita, e questo forse e il moti­vo dello scarso interesse dei lettori rus­si verso questo romanzo e altre opere di Tolstoj junior.
Va precisato in questo contesto che non e affatto necessario che il narrato­re,, per creare un'opera sottile, analiti­ca, intellighentnaja, debba appoggiar­si ai personaggi "portavoce", ai vari alter ego, che non fanno altro che filo­sofeggiare. Anzi, il libro forse piu pro­fondo di tutti quelli che raccontano il Ventesimo secolo russo, Lo sterro di Andrej Platonov, e praticamente la cro­naca di un'esistenza che quasi si po­trebbe definire bestiale.
Sperimentazione linguistica
Platonov va alla verifica di quel progetto "totale", che a partire dal 1917 il nuovo potere sovietico s'era impe­gnato ad attuare, presentandolo come "mondo nuovo", "anno zero" di una nuova civilta, fine della storia, solu­zione definitiva e futura felicita assi­curata. Ma nel "presente" - con un futuro assai distante - la miseria, la fame, la fatica fisica insopportabile e l'incessante lavaggio del cervello ideo­logico hanno ridotto i protagonisti a una condizione quasi animalesca (non a caso uno dei personaggi e letteral­mente una belva.- un orso venuto dal bosco, che sta lavorando a fianco degli uomini e discute con loro i problemi della lotta di classe). Tuttavia nelle menti offuscate dei personaggi si effettua gior­no e notte, senza tregua, un enorme lavoro di ricerca intellettuale, etica, fi-losofica.
Cercando di comprendere il difficile e nuovo mondo (// mondo meraviglioso ed atroce, titolo di un'altra opera di Platonov), di configurare categorie cognitive adatte al sistema filosofico tutto da creare, gli eroi (e naturalmente l'autore) effettuano un interessantissi­mo esperimento linguistico, inventando quella storpiata, insopportabile lingua letteraria russa, che non somiglia a niente e che appunto rese Platonov cosi famoso, unico e tanto difficile da leggere.
Bisogna dire che il traduttore e cu­ratore, Ivan Vere, del tutto consapevo­le della difficolta della sua impresa, e riuscito a trovare una soluzione molto efficace, dichiarando in anticipo i crite-ri della traduzione. Ha arricchito il te­sto con un nutrito commento che si presenta quasi come un manuale di sociolinguistica, e potrebbe essere stu­diato addirittura indipendentemente dal­l'opera. Questa e veramente un'edizio­ne ben curata, con una buona Prefazio­ne, in cui l'universo platonoviano vie­ne messo a confronto con la filosofia di Nikolaj Fedorov, Konstantin Ciolkovskij, Vladimir Vernadskij, Aleksandr Bogdanov (tutti i grandi pensatori russi del secolo corrente), e cosi diventa un'ec­cellente fonte storica per la compren­sione della mentalita dell'epoca, dimo­strando "il carattere a volte messianico, a volte massimalista del pensiero filo­sofico e filosofico-scientifico russo".
Un altro sperimentatore linguistico, narratore del mondo inesistente, Leo-nid Dobycin, e recentemente emerso dal totale oblio nella sua patria grazie a una serie di pubblicazioni e di scoper­te testologiche di cui e stato estrema­mente ricco il periodo del dopo-pere-strojka.
Materiali preziosi a proposito di questa e di simili scoperte sono raccol­ti nel libro di Vitali) Sentalinskij, / ma­noscritti non bruciano (Gli archivi let-terari delKgb), in cui si parla dell'espe­rienza del ricercatore-archivista, poeta e narratore, organizzatore e capo del gruppo di lavoro "Antitrojka" (per la riabilitazione delle vittime del regime totalitario). Dal suo racconto tranquillo e documentato, che talvolta raggiunge livelli di suspenceda thriller poliziesco, i lettori vengono a conoscere gli ultimi giorni dei condannati a morte (del po­eta Osip Mandelstam, del filosofo Pa-vel Florenskij), protocolli di interroga­tori, deposizioni, "confessioni" (Babel', Pil'njak) e riscoprono veri e propri ca­polavori letterari creduti irrecuperabili, come i diari di Babel', alcune prime varianti delle opere di Bulgakov (e a lui che appartiene la famosa espressio­ne i "Manoscritti non bruciano", utiliz­zata come titolo), un poema scono­sciuto di Kljuev, un romanzo inedito di Platonov.
Innumerevoli testi e documenti sono stati trovati in questo modo. Altri pur­troppo non si sono conservati nemme­no nei sotterranei della Lubjanka, dove sulla copertina di ogni cartella veniva stampata l'inverosimile sigla "Conser­vare eternamente". Gli amanti della let­teratura russa del Ventesimo secolo sanno che il metodo piu efficace che i poeti trovarono per salvaguardare i loro testi dalle perquisizioni e dalle confi­sche e stato unico: custodirli nella me­moria viva delle persone. Nadezda Mandel'stam, detenuta nei lager stali­niani, ogni giorno recitava di nascosto migliaia di versi delle poesie del mari­to, e solo grazie alla sua memoria pro­digiosa l'umanita dispone adesso di un corpus sostanzioso dei versi di questo genio della poesia russa.
Achmatova il suo Requiem l'ha sem­pre tenuto nella memoria, di volta in volta affidando qualche riga a pochi amici intimi, senza scrivere mai niente. Tatjana Gnedic nella cella del carcere tradusse in russo, in ottave, artendo dall'originale che ricordava a memoria, il Don Giovanni di George Gordon Byron; e siccome non le diedero ne carta ne matita, riusci a memorizzare interamente anche tutta la traduzione...
Simboli russi
Questi sono esempi di un atteggia­mento eroicamente serio ed onesto verso il proprio lavoro letterario, che ha sem­pre caratterizzato il codice comporta­mentale dei migliori rappresentanti del­l'intellighenzia russa. Testimoni d'ec­cezione, Varlam Salamov e Boris Pa-sternak dialogano di vari problemi le­gati alla letteratura nel felice volumetto uscito da Rosellina Archinto, Parole salvate dalle fiamme (titolo che richia­ma le immortali parole bulgakoviane "Manoscritti non bruciano"). Luciana Montagnani lo ha tradotto da un origi­nale russo, purtroppo non meglio pre­cisato sul colophon; si capisce, comun­que, che il collage dei testi e la loro scelta non sono stati eseguiti dalla tra-duttrice italiana. Sono documenti rari; ma ancora piu rare, inaudite, appaiono le circostanze della loro nascita.
L'ultimo racconto del celebre ciclo di Salamov I racconti della Kolyma (esi­stono varie traduzioni in italiano di questo libro, la piu recente e quella di Adelphi del 1995) e cioe La lettera, e dedicato a questa insolita situazione. La "lettera" e di Boris Pasternak. E partita nel 1952 da Mosca, dove Pasternak sta vivendo anni tremendi (gli e proibito pubblicare libri; deve vivere solo di traduzioni; e arrestata e mandata in un lager la sua donna amata, Olga Ivin-skaja, il cui unico crimine e quello di essere stata la musa di Pasternak, e l'affascinante Lara del suo romanzo). La lettera viaggia a lungo e finalmente ar­riva all'inizio dell'anno 1953 nella lon­tana Kolyma, in uno dei campi di lavo­ro sibcriani dal regime pju severo, in cui e detentuto Varlam Salamov, che sta scontando il sedicesimo anno delle sue prigioni. Per entrare in possesso della lettera, il detenuto deve ottenere il permesso per potere attraversare cen­tinaia e centinaia di chilometri di deser­to, nella tempesta di neve ghiacciata, per raggiungere l'ufficio postale, firma­re la ricevuta e finalmente schiudere la preziosa busta. La lettera che si trova
dentro e interamente dedicata a un'analisi del testo poetico...
Questo racconto sembra una para­bola, anche se e mera verita. Cosi era iniziato il dialogo che poi e durato molti anni, e di cui tutto il senso, tutto il dolore, tutta la passione sono stati legati ai problemi della letteratura, del­la cultura.
Per quel che riguarda la cultura, la poesia, il lavoro creativo, nessun sa­crificio poteva sembrare troppo grande ai due interlocutori. Salamov confessa che alcuni racconti brevi gli erano co­stati dieci anni di lavoro: Pasternak non si stupisce per niente, risponde che anche lui scrive cosi, e che spesso dopo aver "levigato" un pezzo di prosa per molti anni, alla fine gli capita di strappare e cestinare il frutto di tante fatiche.
Quanta attenzione dedicano all'ana­lisi dei libri che hanno letto! Le loro critiche diventano praticamente det-tagliatissime recensioni. La stessa im­pressione nasce anche dal frammento del diario inedito di Salamov, pubblica­to dalla casa editrice Ibis a cura di Anastasia Pasquinelli e intitolato / libri della mia vita. La stessa puntigliosita, la stessa fermezza di giudizio e di princi­pi, nella vita allucinante trascorsa nei lager e nelle carceri, tra varie umiliazio­ni e torture: il libro parla di ritmi e metri poetici, di allitterazioni e assonanze, di invenzione e verita del testo scritto, di vita e di morte che diventano letteratura.
Questi standard altissimi della di­gnita professionale sembrano ormai ir­raggiungibili; ma ormai e passata, gra­zie a Dio, l'epoca eroica, popolata da titani dello spirito, e oggi l'alto dialogo tra Pasternak e Salamov, riletto e am­mirato da noi posteri, assume la maestosita di un simbolo.
Gli echi italiani dei capolavori russi
Cercando altri simboli, se ne posso­no trovare anche fuori dall'ambiente russo. Qualche tempo fa l'Adelphi pub­blico un'edizione del Viaggiatore in­cantato di Nikolaj Leskov, ma il vero protagonista del volume non e l'auto­re, bensi il suo traduttore in italiano, Tommaso Landolfi. La Prefazione e de­dicata alla figura di quest'ultimo, e sem­bra incredibile quanto studio, quanta fatica ci mettesse e quanti tormenti avesse questo brillante traduttore nel-l'eseguire anche il piu piccolo lavoro.
Questo libro testimonia che le vette altissime della professionalita e della buona scuola sono - e rimangono -sempre presenti nella tradizione della russistica italiana. Non sempre pero la schiera dei giovani russisti ritiene ne­cessario commisurarsi con queste vet­te. Fa impressione leggere sulla quarta di copertina di un recente volume del­le poesie di Tjutcev (probabilmente uno dei poeti russi piu difficili da tradurre) frasi tipo "Fino a oggi la poesia di Tjutcev e stata considerata patrimonio degli specialisti... Questa antologia pro­pone le poesie piu significative di Tjutcev presentandole nella loro giusta dimensione [...]". Questo viene scritto, mentre esiste nelle biblioteche italiane un meraviglioso volume delle poesie di Tjutcev tradotto da Landolfi e curato da Ripellino per il vecchio Einaudi (1964), opera a cui un traduttore genia­le come Landolfi dedico anni e anni di scrupoloso lavoro!
Vediamo dunque questa recente rac­colta "di "giusta dimensione". Le tradu­zioni qui sono, come capita molto spes­so, ne carne ne pesce: una parola dopo l'altra, si traducono i versi come in una esercitazione scolastica. Viene "riaggiu­stata", "normalizzata" la grammatica un po' storta dell'originale. E il lettore, come capita molto spesso, rimane com­pletamente indifferente di fronte al ri­sultato, e pensa: cosa ci trovano di cosi geniale in queste poesiole?
In compenso, pero, si mettono ben in mostra tutte le attrezzature obbliga­torie dei "russisti doc", in copertina viene riprodotto non solo il nome, ma anche il patronimico dell'autore (in Russia veramente questo non si fa mai, pero che chic, il patronimico con la "pipetta" sull'ultima consonante! Pec­cato che nella prima frase del testo, all'interno del libro, la stessa "pipetta" per motivi inspiegabili sparisce chissa dove...).
Le note sparse qua e la nel testo spiegano spesso cio che non ha vera importanza per la comprensione della poesia, mentre alcune cose basilari ri­mangono invece inspiegate. L'Introdu­zione inizia in modo assurdo ("Per molto tempo la poesia di Tjutcev e stata letta soprattutto filosoficamente", come se esistesse al mondo un metodo piu ade­guato per interpretare le opere di que­sto grande filosofo!), e la figura del­l'autore viene caratterizzata in maniera talmente irresponsabile ("noto tra i con­temporanei quasi esclusivamente come brillante frequentatore di salotti", que­sto parlando di un importante diplo­matico e uomo di Stato!), che questo volume ci e sembrato esemplare, ma in negativo, tra le pubblicazioni dell'ulti­mo periodo. Questi libri tradiscono una curatela frettolosa ed imprecisa (l'edi­zione mondadoriana delle poesie di Mandelstam, tanto per dire, soffre de­gli stessi difetti). Appare terrificante la prospettiva che questi libri finiscano (come probabilmente sara gia succes­so) negli elenchi delle letture obbliga­torie per gli studenti che frequentano l'universita.
Al contrario, un vero regalo a pro­fessori e studenti e l'appena uscita raccolta di testi e di note biografico-critiche che illustrano un fenomeno particolare e importantissimo per la comprensione della cultura russa, il cosiddetto Mito di Pietroburgo, che spesso viene chiamato dagli specialisti "II testo pietroburghese" (// miraggio e la minaccia, accuratamente preparato da Mili Romano, con il sottotitolo "Vi­sioni di Pietroburgo in versi e in pro­sa"). Un altro lieto evento: e uscita da Guida la traduzione di un'utilissima monografia sulla mitologia russa, Ivan lo Scemo di Andrej Sinjavskij. Questo vo­lume potra essere utilizzato, con gran­de profitto, per corsi universitari sugli elementi di base del folclore dei popoli slavi: fino a oggi i docenti, si appoggia­vano unicamente al vecchio ed incom­pleto libro di Gasparini // matriarcato slavo.
Un altro strumento molto ben idea­to per studiosi e studenti e il volume di Nikolaj Gogol. Dall'Italia uscito da Voland in base al progetto originale di una italianista russa, Galina Murav'eva. Basta non prestare attenzione all'infe­lice sottotitolo "Abbandoni e meschi­nita di un grandissimo ipocondriaco, in fuga da se stesso e dalla Russia". Nel testo brani di opere e citazioni da lettere private si alternano con pezzi di memorie e di commenti lasciati da persone che conobbero e frequenta­rono Gogol'. Ne vien fuori un racconto unitario e coerente che potra interes­sare tutti coloro che intendono studia­re in profondita l'argomento "Gogol' e l'Italia".
Sicuramente il lettore vedra subito che sotto l'italocentrismo di Gogol' si nasconde non la fuga dalla Russia, ma la ricerca di essa; non a caso gli zar moscoviti vollero chiamare il loro re­gno "terza Roma", oppure "nuova Ge­rusalemme", le due citta sacre del cri­stianesimo che affascinavano Gogol'. "Il mio ritorno in patria e possibile solo attraverso Gerusalemme", scrisse. Vla­dimir Nabokov, autore di un ciclo di bellissime conferenze dedicate all'ope­ra gogoliana e alla sua persona, com­mentava impietosamente questa frase: "I santuari che visito non si fusero con la loro mistica realta nel suo animo. In conclusione la Terra Santa fece poco per il suo spirito (e il suo libro), come i sanatori tedeschi avevano fatto poco per il suo corpo...". La tragedia di Go­gol consiste non nel fatto che lui do­vette fuggire dalla Russia, ma, al con­trario, nel fallimento della sua ricerca della Russia, che lui tento invano di
scoprire "dalla mia meravigliosa lonta­nanza", tramite la cultura mondiale, con l'aiuto di paralleli e di prototipi eccel­lenti, non ci riusci, e questa e stata la sua morte.
L'estetica del racconto
Passando in rassegna vari libri di narrativa, tradotti e pubblicati in Italia nel corso degli ultimi due-tre anni ed indirizzati non piu al pubblico scolasti­co, ma ai lettori comuni, non si puo non accorgersi di alcuni elementi che accomunano la maggior parte di que­ste pubblicazioni. Prima di tutto, i pe­riodi piu seguiti dall'editoria italiana rimangono sempre quelli dei quali si e parlato all'inizio della rassegna: il de­cennio prima della rivoluzione russa e il decennio successivo. Al centro del­l'attenzione rimangono sia i testi creati in patria sia quelli nati in emigra­zione berlinese e parigina, dove le due enormi diaspore russofone sono riusci­te a ricreare la ricca atmosfera spiritua­le delle amate citta native.
Interessanti esercizi di stile effettua Nina Berberova, scrittrice la cui crea­tivita e talmente analitica che i veri suoi capolavori, molto piu significativi dei romanzi e dei racconti da lei scritti, sono le sue prefazioni ai libri fatti da altri e anche ai propri. L'Introduzione dell'autrice al volume adelphiano Le feste di Billancourt contiene tutti i caratteri psicosociolinguistici dell'am­biente dell'emigrazione, che per Ber­berova e sempre stato un serbatoio di soggetti per la sua narrativa, ma anche l'unico vero destinatario del lavoro let­terario.
Sigizsmund Krzizanovskij (Autobio­grafia di un cadavere e La tredicesima categoria della ragione) e Michail Bulgakov (Diorama moscovita) scrivono per un altro pubblico e si nutrono di altre impressioni. Hanno molto in co­mune nello stile e nei soggetti, questi due narratori, ambedue emigrati a Mosca da Kiev negli anni dopo la rivolu­zione, ambedue inclini all'humour del­l'assurdo e dotati di potente fantasia, ambedue virtuosi dello stile; ambedue perseguitati dal regime, costretti a fare piccoli lavori, impediti nelle pubblicazioni... Bulgakov ebbe la fortuna di riemergere abbastanza presto, negli anni Sessanta, dopo qualche decennio di oblio quasi totale. L'ora della risurre­zione di Sigizmund Krzizanovskij e ar­rivata adesso. Segnaliamo come un vero merito della Biblioteca del Vascel­lo quello di avere messo a disposizione del pubblico italiano questo eccellente scrittore.
Tra altri testi recuperati negli archi­vi e sulle pagine dei vecchi giornali letterari, si fa notare il ciclo dei raccon­ti brevi di Valerij Brjusov Racconti del­l'Io. Si fa notare, se non per altro, per il contrasto strabiliante tra l'annotazione sulla copertina "Racconti di straordina­ria bellezza dell'originale e brillante Edgar Allan Poe russo" e la sensazione, di un cattivo gusto deprimente, al limi­te della parodia, che lasciano i testi stessi. L'eros dei decadenti, di cui Vale­rij Brjusov e il principale rappresentan­te (lo testimoniano anche le recenti Sonderband di varie riviste letterarie russe, dedicate alla letteratura erotica, fino ad oggi vietata e mai pubblicata in Russia), e disperatamente comico, non c'e niente da fare.
E facile notare che le pubblicazioni qui analizzate nella loro stragrande maggioranza non sono romanzi, ma raccolte di racconti. Il racconto breve per la verita domina nella narrativa russa, soprattutto nel periodo attuale. In un certo senso il racconto si contrappone al romanzo che nel corso di alcuni secoli assunse, come abbiamo gia no­tato, le funzioni di un'analisi storico-sociale, le funzioni della filosofia che allo stato puro non e mai esistita in Russia. Attraverso le varie epoche gli eroi dei romanzi russi hanno compiuto analisi sociali, hanno posto problemi morali, religiosi e politici. Il romanzo, da Tolstoj e Dostoevskij a Solzenicyn, e sempre stato visto come luogo di interessi ideologici, mentre il racconto si presentava come piu disinteressato; nella concezione kantiana la contem­plazione disinteressata e la base del­l'atteggiamento estetico verso la vita.
Riferimenti bibliografici
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Contro la caccia e il mangiar carne
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